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diario d'officina

ritornano pagine usuali...
consumate fino a notte.
istante per istante.
oltre il nostro vecchio portone di legno...
ed ancora ciottoli da raccattare... o da deporre...
ancora una via di cui non si intuisce la meta...
ed infinite immaginifiche vivono.
ancora il sottilissimo filo di un sogno
a legare senza nodi.
non più grande
del refe ordito dalle graziose mani della  "regina mab"...
e non diversamente dai suoi,
filo che è vano spezzare...
perché non vi sono lame
capaci di recidere
i tessuti dell'anima - i più intimi -
ove si dipingono
le voci... i mercati... i vicoli...
i volti...
...ed i sogni...
quelli di ognuno...
quelli che unici rubano alla realtà le loro tinte
e vivono
tra le pareti delle officineteatrali.
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lascio i miei vestiti scivolare in terra.
li ripiego con cura
li ripongo nella sacca...
tra appunti... fogli... libri...
e parole.
le mie... le loro...
il pensiero di tante cose da dire ancora...
da ascoltare...
instancabilmente...
di nuovo indosso i miei abiti di ogni giorno.
lo zaino sulla spalla... le chiavi in mano...
mi avvio anche stasera...
spengo le lampade...
buio...
ma la luce rimane con me...
non quella dei freddi neon al soffitto.
non quella...
una luce lieve... donata... rubata...
sagoma ombre di verità cercate.
le mie...
le loro...
le nostre...
immagino di portarla via.
anche solo un riverbero. minimo.
nella sacca...
tra gli appunti... i fogli...
una maglia ripiegata con cura...


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lunedì, 12 febbraio 2007
non ho mai saputo
immaginarle
 "capaci di volare",
le parole.
rinfusamente,
volare.
né mai immaginate
nella forma
che da millenni
un antico proverbio
in latino
detta loro.
capaci di ali.
questo.
ma è diverso.
capaci di spiccarsi
ben oltre
conosciuti sentieri.
capaci di insinuarsi
nei più sottili
spechi dell'anima.
così
le ho sempre
immaginate,
le parole.
fin da bambino,
quando non credevo
che le mie prime parole
scritte
su un quaderno
due volte le mie mani
potessero dire
il volto...
l'abbraccio...
l'amore
che sempre mi ha avvolto...
che mi ha lasciato crescere...
che mi ha lasciato scegliere,
poi,
che le "parole"
imprimessero
così profondamente
la mia vita.
camminando per strada,
addentrandomi
tra le viuzze di trastevere,
mille di mille lingue diverse
mi vengono incontro.
le attraverso.
mi attraversano.
sono parole
che non mi appartengono.
che il mio orecchio
inopportunamente coglie
e subito lascia scivolare via.
non mie.
non per me.
poi altre parole
ascolto.
altre parole io dico.
e sono queste
le parole
che permangono.
che creano
un loro luogo
dentro
ognuno di noi
- da sé lo creano -
e lì sono abili
nel loro
restare poi annidate,
silenti... rumorose...
o solo fruscianti...
- come rami che improvvisamente
  stormiscono
  al soffio
  di un leggero inaspettato
  alito di vento -
per un tempo
che non basterebbe
il tempo
a dirlo.
annidate.
in chiunque le pronunci.
in chiunque le ascolti.
a volte sembrano svanire.
dissolversi
nella caducità
di una memoria
opportunamente fragile.
ma poi d'improvviso
tornano,
recando
ancora intatto
il graffio,
o la carezza,
che ha donato
loro
il primo sorgere.
ed una volta proferite,
"divengono fatti,
le parole".
irreversibilmente.
è pensiero "rubato",
quest'ultimo.
preso a prestito
- adesso
  per una pagina di diario -
da un autore
che amo.
ma è un pensiero
che ho fatto mio.
naturalmente.
immediatamente.
senza fatica.
...quando le parole si annidano...
ed in cui credo.
ogni giorno.
pensiero che sovente ricorre
nella mia mente.
qui, tra le pareti del laboratorio.
nella vita di ogni giorno,
brulicante
già appena fuori l'uscio
delle officine.
ed hanno una loro forma,
le parole.
mai usuale.
la stessa,
mai.
una forma
che nasce da un sentire,
da un'emozione,
da quel pensiero
che cadenza
queste pagine,
così come il nostro giocare
in laboratorio.
pensiero
che mai ci stanchiamo
di inseguire
fino in fondo
al dedalo
di vicoli
in cui si dirama
il nostro "avvertire"...
il nostro "avvertirci"...
e tutto ciò
che rende le parole
"fatti"
- che pesano ora come macigni...
  che ora fendono
  i cieli più alti -
non è nulla
di più esile,
che un "pensiero".
capace di plasmarle,
le parole,
oltre ogni significato,
oltre ogni oggettivare,
capace di trasfigurare...
tramutare
un "ti amo" in un "ti odio"...
un "ti odio" in "ti amo".
e so
che le stesse
parole
che adesso traccio
su questo foglio
non avranno mai
nei mie sette lettori
quegli identici
tratti
che io cerco
di incidere loro
e che vorrei
nitidamente
fossero colti,
serbando intatto
il loro sapore,
il loro colore,
quel qualcosa che nasce
in me
e che mi àncora,
qui,
adesso,
a questa scrivania.
solo le mie dita
si muovono
sulla tastiera.
poi il pensiero
fa in fretta
a portarmi via
da questo studio
dove io sono,
da questo tempo
che io ora vivo,
e consegnarmi
a quell'emozione
che nutre
riga per riga
questo diario
e senza la quale
- sì, allora sì -
su queste pagine
resterebbero forse
solo una sequenza
di segni neri
sul bianco.
né alcuno
ne distinguerebbe,
non già il significato,
ma la loro
semplicissima
forma.
eppure
nulla di più banale
delle parole.
in loro
troppo spesso
riconosco
la più facile
veste
che abitualmente,
ritualmente,
il pensiero indossa.
superficiali noi,
sordi
a quel linguaggio,
intimo,
pudico,
semplice...
"vero"...
che vive
in ognuno...
molto più raro
saperlo,
volerlo comprendere.
dirlo...
quello del corpo...
quello dei gesti...
quello degli occhi.
sfuggenti,
mille volte
lo veliamo
per la paura
di essere nudi.
per il timore
che altri svelino
le cose di noi.
o per timore
di una verità
che forse
è più facile
celare a noi stessi.
quanti modi
per essere...
quanti modi
per rifiutare di essere...

pensieri che invadono,
che non portano via,
ma che invadono
mentre le battute
- parole! -
si ripetono ancora
sul palcoscenico.
ascolto in silenzio.
osservo.
ma ciò che percepisco
non basta a saziarmi.
le parole mi raggiungono.
ed io,
di loro,
distinguo ogni segno.
come fossero scritte
nell'aria di fronte
ai miei occhi.
come la loro ombra
macchiasse il palcoscenico
sotto le luci di neon.
come se le labbra
di chi le pronuncia
fossero solo
un mezzo
per fendere
il vuoto
di un palco
che quelle parole
da sole,
ora,
non potranno colmare.
come la distanza infinita,
nella vita,
tra persone
che parlano
senza nulla
dirsi.
ma qui
non è la vita.
non si può
"non dire"
né  ci si può celare,
sul palcoscenico:
non esistono rifugi,
quassù.
se vi è uno luogo
dove la "verità",
ogni "verità",
ha scelto
d'essere vita
è proprio qui,
qui sul palcoscenico
ove solo favole,
- bugie -
hanno vita.
ripercorro
dentro di me
quelle battute,
nel mio silenzio,
per qualche istante.
immagini
prendono forma.
un salone pieno di luci...
gente che ride...
che balla...
che beve...
che mangia...
che parla.
forse anch'essa
senza nulla dirsi.
un uomo e una donna,
appartati...
dialogano.
il loro è
un parlare sommesso,
per evitare
che altri
possano carpire
parole
che non possono
essere ascoltate.
ma non da noi.
..."non si può non dire"...
e non si dice,
quando il pensiero
non basta
a fare intuire volti;
voci;
un luogo,
- un salone affollato,
  illuminato a festa - ;
un tempo...
e sono allora
il corpo,
il gesto,
gli occhi,
a sostenere
parole
che ambiscono
un divenire
"fatti".
l'incidersi nel compagno
di scena
con una verità
mai inferiore
a quella
che deve essere
consegnata
al pubblico.
perché esso crei
di un salone,
il proprio salone;
di una festa,
la propria festa;
ascolti
il brusio
che invade
quel luogo,
pur nel silenzio,
nella nudità,
di un contesto scenico.
poiché "verità"
non è verismo.
verità è emozione.
emozione
è indurre
a credere,
a reinventare,
a vivere
quella favola
che istante dopo istante
si snoda
davanti allo sguardo
di una platea.
è in quell'istante,
istante dopo istante,
null'altro
"è".
le mie provocazioni,
le mie osservazioni,
per istigare
a quegli infiniti
linguaggi
attraverso i quali
"si muove"
il pensiero.
e le parole
assurgono a quella forma
che non è mai
scevra
da una simbiosi
con i mille
idiomi del corpo.
ove simbiosi
non è sovrapposizione
di codici.
né,
tra di essi,
potrà mai
esservi
contraddizione
alcuna.
è invece la costante ricerca
di un contrasto
che vieppiù
metta in luce
le più tenui
sfumature
del nostro
essere teatro.
sfuggendo
facili didascalismi
o luoghi comuni
- quelli che in teatro
  prendono nome
  di clichet -...

ma a volte
anche qui
fa paura
muoversi,
allontanarsi,
da quelli
che apparentemente
si credono
luoghi sicuri,
porti certi.
percorro i miei passi
tendendo la mano
a chi mi sta accanto.
le paure,
le loro paure,
sono anche le mie.
le incertezze...
i timori...
a volte
mi torna in mente
l'immagine
di uno scalatore
di rocce.
a mani nude
contro le rocce...
sulle rocce...
per progredire
lungo la parete
egli dovrà
lasciarlo
un appiglio.
lì dove sono
le sue mani,
i suoi piedi,
uno dovrà lasciarlo.
avendone altri tre
sicuri,
abbandonarlo
per cercarne
un altro
non meno sicuro
degli altri.
ma più in alto degli altri.
e poi ancora.
e ancora.
ma per qualche istante
- e li immagino
  interminabili
  quegli istanti -
una sua mano...
un suo piede...
sono fratelli
solo al vuoto,
all'abisso,
sotto di lui.
e non è meno profondo
il vuoto
che noi stessi
avvertiamo
lasciando qui,
sul palcoscenico,
uno solo
dei nostri appigli
per cercarne
un altro...
più in alto,
mai certi
che sia
più saldo
del primo...
ma bisogna
provarne
la stabilità,
la forza,
la certezza...
e cadere,
anche...
e sapere
rialzarsi...
e tornare
a cercare...
e trovare un cielo
dove infine
le mie parole
abbiano ali.
le mie ali.
e lasciarle
volare
nel mio stesso
identico
volo...

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