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diario d'officina

ritornano pagine usuali...
consumate fino a notte.
istante per istante.
oltre il nostro vecchio portone di legno...
ed ancora ciottoli da raccattare... o da deporre...
ancora una via di cui non si intuisce la meta...
ed infinite immaginifiche vivono.
ancora il sottilissimo filo di un sogno
a legare senza nodi.
non più grande
del refe ordito dalle graziose mani della  "regina mab"...
e non diversamente dai suoi,
filo che è vano spezzare...
perché non vi sono lame
capaci di recidere
i tessuti dell'anima - i più intimi -
ove si dipingono
le voci... i mercati... i vicoli...
i volti...
...ed i sogni...
quelli di ognuno...
quelli che unici rubano alla realtà le loro tinte
e vivono
tra le pareti delle officineteatrali.
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lascio i miei vestiti scivolare in terra.
li ripiego con cura
li ripongo nella sacca...
tra appunti... fogli... libri...
e parole.
le mie... le loro...
il pensiero di tante cose da dire ancora...
da ascoltare...
instancabilmente...
di nuovo indosso i miei abiti di ogni giorno.
lo zaino sulla spalla... le chiavi in mano...
mi avvio anche stasera...
spengo le lampade...
buio...
ma la luce rimane con me...
non quella dei freddi neon al soffitto.
non quella...
una luce lieve... donata... rubata...
sagoma ombre di verità cercate.
le mie...
le loro...
le nostre...
immagino di portarla via.
anche solo un riverbero. minimo.
nella sacca...
tra gli appunti... i fogli...
una maglia ripiegata con cura...


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lunedì, 5 febbraio 2007
giornate senza fine,
sembrano essere
queste
che incalzanti si inseguono,
una dietro l'altra,
interrotte
solo dalle ore
- velocissime ore -
condivise qui,
tra queste mura,
in laboratorio.
dove tutto sembra avere
un altro ritmo...
un altro andare...
un altro muoversi...
che io non lo so dire
cosa realmente sia,
spiegare narrare restituire...
questa pagine,
forse,
a volte,
riescono ad esserne traccia.
esilissima traccia
di un sentire
mai esile.
pagine
che "si sfogliano"
velocemente.
che non ripercorro mai.
che si aprono
allo schiudersi
di un portone di legno.
e che quel portone di legno,
poi,
a notte,
di nuovo sigilla.
ma in queste pagine,
in ogni riga,
in ogni parola,
in ogni sospensione,
è un respiro
che non è quello
degli esercizi;
è un ritmo
che non è
quello
di una scrittura,
o di una cifra stilistica;
è un pulsare
che non è solo
quello
di un cuore
- sarebbe
  un troppo debole
  battito -
è qualcosa che avverto
appena oltre la soglia,
appena la varco,
percorrendo il buio
del corridoio
verso la penombra della sala,
verso quello spicchio
di sole,
o di grigio,
che ogni volta
mi viene quasi incontro,
disteso
sul palcoscenico,
come fosse
una luce sopita,
aspettando forse
che il bagliore
del nostro giocare
lo risvegli.
lo faccia fuggire via.
o infine
lo liberi.
è qualcosa
che avverto nella lentezza
del mio primo
agire,
qui dentro,
da solo,
come dovessi
aderire
a qualcosa
che colmi
quest'aria ferma.
umida,
a volte.
fredda,
a volte.
qualcosa che avverto
scrollarmi di dosso
e subito dilagare
- qui tutt'intorno -
scivolandomi via.
e man mano
si serra oltre,
il rumore.
o identico,
il chiassoso silenzio
che frastorna
e di cui solo il "nulla"
è capace.
quel "nulla"
che mai smette di negarsi,
fingendo di offrirsi...
quel "nulla" che chiude le porte
illudendo di aprirle...
quel "nulla"
così affabilmente sordo
alle voci
che non hanno fiato abbastanza...
e tutto questo "nulla"
qui,
adesso,
ora,
comincia a tacere.
e quel qualcosa
che ritrovo
tra queste pareti,
quel qualcosa che non so dire,
quel qualcosa che vorrei
segnasse più dell'inchiostro
queste parole,
inizia a stendersi.
come tela di garza
rivestire i muri nudi,
scaldarne
le superficiali
mani di pittura
"senza colore"...
e quasi opalescente membrana
iniziare a pulsare.
delle nostre parole.
dei nostri pensieri.
delle nostre emozioni.
e di tutto questo
quali parole
potranno mai essere traccia?
realmente traccia?
ma forse non ha importanza.
forse basta
l'essere voce sottile,
quella voce sottile
che io credo noi siamo...
che ha voglia di dirle,
le sue cose.
non urlarle.
semplicemente dirle.
né alcuna cosa
ha difficoltà
a giungere
qualunque luogo
essa ambisca
ove vi sia qualcuno
che abbia il desiderio
di accoglierla.
e finché sentirò,
sentiremo,
che queste parole
troveranno
qualcuno
che desideri farle proprie,
fino ad allora,
io NE SONO CONVINTO,
avremo voglia di credere
IN QUESTE ORE
MAI UGUALI
CHE SI INCUNEANO
TRA GIORNI
SEGNATI
DAL FRASTUONO DI UN TEMPO
CHE NON CI APPARTIENE.

BEVIAMO UN CAFFè CALDO,
IO E PATRIZIA,
SEDUTI ALL'APERTO,
NEL SOLITO BAR
DOVE CONSUMO
LA MIA BREVE SOSTA
PRIMA DI RAGGIUNGERE IL LABORATORIO.
PARLIAMO DI PAURE.
DI FUTURO.
DI UN DOMANI
ORMAI TROPPO PROSSIMO.
PARLIAMO DI SCELTE.
DELLE MIE CHE SONO STATE.
DELLE SUE
CHE SARANNO.
CHE DOVRANNO ESSERE.
PARLIAMO SOLO PER pochi MINUTi.
INTENSAMENTE,
PER pochi MINUTO.
POI CI AVVIAMO.
il nostro consueto dialogare,
sorridere,
accompagna il nostro deambulare
cadenzato dal pensiero delle cose di prima,
da qualcosa di irrisolto.
ché NON SONO IO A POTERle DARE RISPOSTE.
non quelle che vorrebbe ascoltare.
COSì COME LEI
NON PUò ANDARE OLTRE
IL PORSI DOMANDE.
non oltre, ora.
IN LABORATORIO,
DOPO,
MI OFFRE DEI FOGLI
RIPIEGATI IN QUATTRO.
LEGGO.
UN RACCONTO.
ED IN QUELLE PAROLE,
CHE DA SUBITO
riconosco ESSERE SUE,
sono LA FRAGILITà E LA FORZA
DI CUI SOLO L'AMORE
è CAPACE.
PER IL TEATRO,
AMORE.
ci raccogliamo intorno al palcoscenico.
le luci spente.
giochiamo.
ma intimamente
vorremmo che il nostro gioco,
il palcoscenico,
avesse la forza
di svelare
parole da porre
in calce
ad ogni punto interrogativo;
o alle parole di quel racconto,
in fondo.
nel monologo che propone patrizia,
un addio subito
si trasforma
in una rivalsa,
cruda, dolorosa, irrefrenabile,
che è come una matassa
che si sgroviglia
istante per istante,
parola dopo parola.
come se il pensiero
di quella giovane donna,
da rivolo si trasformasse in torrente,
e nell'attimo stesso in cui
quelle parole vengono pronunciate
quel torrente prendesse
vigore,
si gonfiasse
di infiniti altri rivoli,
che accoglie
percorrendo fino a valle
la verità di un abbandono
che avrebbe dovuto ferire,
ma che invece
proprio quelle parole lenisce,
rivelando dentro se stessi
una verità inaspettata.
è un passerotto
che si trasforma in aquila,
visibilmente
comincia a dispiegare
le proprie ali,
volando in alto,
oltre la meschinità
di cui solo uomini senza volto
sono capaci.
ci fermiamo più volte,
con patrizia.
in ogni battuta
è il progredire di un pensiero,
il lento aprirsi
di invisibili ali
per spiccare il volo
verso un cielo
che infine si scopre essere il proprio.
ma vi è ancora di più.
la presenza di quell'uomo,
che ha appena finito di dire
la sua vigliaccheria,
ed ancora lì,
impassibile,
innanzi agli occhi
della giovane donna.
ed è un'altra verità,
ineludibile,
che anela una sua vita.
quella di quell'uomo,
che seppur invisibile
ai nostri occhi,
deve vivere nelle parole
della donna,
assumere contorni,
tratti,
voce...
ed io devo vederlo,
distinguere
la sua sagoma
che si staglia
contro il fondo della scena.
vedere i suoi abiti.
intuire i suoi occhi.
riconoscere ogni suo movimento,
gesto,
pensiero.
e tutto ciò
senza alcunché descrivere,
ma solo avvolgendo
le parole
della verità di un pensiero.
sono solo immagini.
null'altro che immagini.
ma forse nulla
è più vivo,
nulla capace di incidersi
più profondamente
nel pubblico,
di "un'immagine" che attinge
la sua vita
dal pensiero,
da parole nude
e però capaci
di restituire il medesimo afflato
di un respiro.
e non è la tecnica
di un cambio ritmo
o di una variazione di tono
che può bastare
a restituirmi quella verità.
dev'essere vivo prima in me,
quell'uomo,
perché io possa consegnarlo,
vivo,
ad una platea.
fare che essa se ne impossessi.
e dando vita a lui,
il mio stesso personaggio
trarrà una verità
capace di esulare
i singoli istanti
che esso vive adesso,
scorrendo innanzi ai miei occhi.
e di quella giovane donna
io potrò trarre,
immaginare,
inventare,
i suoi giorni vissuti.
così come quelli
che saranno ancora,
"dopo",
quando le proprie spalle
voltate
a quell'uomo,
si avvierà
con un passo diverso
incontro i giorni a venire.
la tecnica
è un gradino oltre.
è ciò che consente
al pensiero di assumere
la forma cui ambisce.
l'acqua e l'orcio
sono entrambi
necessari
se voglio recare
di che dissetarsi
a chi chiede da bere.
ma ciò che disseta è l'acqua,
non l'orcio.
e l'orcio è identico,
per tutti.
non l'acqua.
né la fonte da cui essa sgorga.
provocare
perché ognuno intuisca
la propria fonte,
perché non abbia
paura ad attingere
la "sua" acqua,
perché non tema
di berla egli stesso,
ancor prima di offrirla,
quell'acqua...
e se l'orcio è capiente,
se l'orcio non è scheggiato,
se nessuna crepa
ne percorre la pancia,
mai nessuna acqua
potrà perdersi...
tracimare...
versarsi su terra arida
o sassi.

ancora sulla maschera,
con i ragazzi.
ancora cercando quella
nettezza gestuale
che in modo univoco
restituisca
il significare
di ogni agire.
proviamo tutti.
immaginando contesti
diversi.
eterogenei.
improvvisando.
ma restando però
legati,
anche stasera,
al nostro percorrere
la breve drammaturgia
di lucia.
i sorrisi,
e la "fatica"
dell'indossare la maschera,
adesso come una giostra.
ogni tanto li fermo.
do le mie indicazioni
senza mai indossarla,
la maschera.
non voglio
che il cercare
possa facilmente
trovare rifugio
in un semplice
tentativo
di ripercorrere
i gesti tracciati da me.
sono sempre più lievi
i movimenti di margherita.
controllati,
quelli di agnese.
daniela viene avanti
attraverso la sala.
quasi sospeso il suo incedere,
senza peso,
come riuscisse a solo a sfiorarlo,
il pavimento...
scivolare via.
gli altri,
ancora...
ognuno provocando
il compagno
ad una sempre nuova
reazione.
ed ogni volta
è un'occasione
per dire qualcosa di più.
per riflettere.
assimilare.
ancora provare.

è difficile staccarsi
dal lavoro
con la maschera,
ma adesso necessario.
in cerchio sul proscenio
torniamo a leggere
il nostro piccolo copione,
ripensandolo
alla luce
delle improvvisazioni
di questi giorni.
ed una verità
vieppiù più profonda,
più aderente al testo,
adesso affiora.
naturalmente.
lo avverto dai tempi.
lo avverto dalle pause.
lo avverto da piccoli
cambi di tono
che sono
pensieri che mutano,
quando il pensiero
infine
diviene tangibile.
su due battute
della "scrittrice",
ormai nuda
d'ogni maschera,
ci soffermiamo.
due battute strettissime,
l'una conseguenza dell'altra,
ognuna
con un significato
totalmente diverso
dall'altra.
ma dell'altra,
conseguenza.
li guardo,
mentre leggono.
mentre essi stessi
accusano
la non "verità"
del loro vivere
quelle battute.
un pensiero che si possiede
ma che non si riesce
a dire.
a veicolare.
a far arrivare
agli altri.
non smetto di provocare.
non smetto di stimolare.
non smetto di insistere
sulla necessità
di staccarsi,
di staccare,
le parole dal testo...
di lasciarlo fluire,
il pensiero...
sbagliando,
non importa quante volte,
ma senza mai inseguire
un suono.
un "modo" per dire
quelle parole
così semplici
ma che appaiono
adesso impossibili.
e sorridiamo,
anche, tra noi...
sentendoci
buffamente impotenti
innanzi
a quelle battute.
poi, improvvisamente,
una sola intuizione,
semplice,
relega quelle difficoltà
soltanto a un ricordo.
e negli occhi dei ragazzi
è il sorriso,
adesso.
e mi piace,
ora,
ripensare a quel sorriso
come a voce sottile
di acqua...
mai cheta
in un orcio di rame...

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