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diario d'officina

una piccola vite è sfuggita alle mie mani...
per un attimo i miei occhi
la inseguono
lungo la rampa
d'asfalto,
in discesa,
tra piccoli rivoli
d'acqua di pioggia...
poi la smarriscono.
tra il nero di pece
e rare pietruzze
senza storia
né percorso...
la cerco.
rovistando il nero.
tracciando i miei passi
buffi disegni
mentre la pioggia
in silenzio
riprende.
rimango fermo, poi.
esplorando gli immaginari
quadrati
che senza riga né squadra
traccio sotto i miei occhi.
rughe di catrame
mi scivolano
incontro.
e su di esse
le gocce di pioggia
riconoscono
infine
l'inganno
che la aveva illuse
d'essere mare.
un giorno.
ficco le mani in tasca
risalendo piano
verso la strada.
il cacciavite
preme contro il mio braccio.
siamo immobili
entrambi,
legati
ad un luogo che mai è sosta,
o riposo.
mai un arrivo.
mai una partenza.
legati
a un "non luogo"
da una piccola vite
che si fa
beffe di noi.
ma non riesco
a staccare gli occhi da terra.
non riesco
a smettere
questa smania d'adesso
di cercarla.
di trovarla.
di prenderla.
eppure
sarebbe più semplice
attraversare la via
e a dieci passi
da qui
comprarla,
identica,
un'altra piccola vite.
e le ficco
più in fondo alle tasche,
le mani,
e lo stringo
più forte
il manico del cacciavite,
e di più
premo la punta
contro il mio braccio,
che tanto lo so
che questa pioggia
da campo d'arare
non basterà
a cacciarmi via.
Ed infine,
appare.
dal nulla,
quasi.
come fosse stata sputata via
dal bitume.
mi chino.
a coglierla.
senza guardarla.
senza più importanza,
adesso.
senza fretta
torno alla piastra d'acciaio
che pendeva
dal muro
come uno sghembo impiccato.
avvito piano.
come dovessi
riprendere il tempo
condiviso
con croste d'asfalto
di una via "nessuna".
e il cacciavite
sembra
far suo, il mio tempo.
assecondandomi.
restituendo identica
la mia forza
ad ogni giro di vite.
chiedo al mio maglione,
in prestito,
un pezzo di manica...
asciugo la pioggia
dall'etichetta.
ci provo.
è inutile.
altre gocce.
e per un attimo
non mi sembrano diverse
dalla brina che si scioglie
sui vetri,
ogni nuovo mattino.
e mi diverte
leggere
tra quei riflessi
di briciole d'acqua
quella piccola scritta
che rivela
le officine teatrali.
piove ancora.
più forte, adesso.

non importa...
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mercoledì, 03 febbraio 2010;
giovedì, 04 febbraio 2010;
venerdì, 05 febbraio 2010;
giorni vissuti
d'un fiato.
senza tempo.
adesso sono il silenzio
e la luce della mia lampada,
uniche compagne
a parole che non so ancora,
ma che sopravanzano
l'una all'altra,
ed ognuna alla voglia
di ripercorrere
gli attimi
che senza fragore
si sono spartiti
il nostro
"senza tempo",
ingoiandolo intero.
qui.
adesso.
lo sento...
è tempo sazio,
ora.
e di nuovo lo avverto lento
scorrermi
addosso
insieme alle immagini
che disordinatamente
affiorano
a scompigliare
l'impossibile ordine
cui cerco di affidare
la mia necessità
di giocare.
necessità
come
di quei lontani
soldatini di latta
che animati
da una molla senza fine
picchiavano
incessantemente
sul loro tamburino,
anche quando infine,
la sera,
riposti dentro una cesta di vimini,
precipitati quasi
in fondo ad un pozzo
che serbava intatta,
fino al giorno a venire,
ogni felice
stanchezza,
li sentivi echeggiare
ancora
la stessa marcia
ritmata
sui quadri rossi
e verdi
e blu
di un tappeto
senza confini.
e inseguiva ancora,
fino al sonno,
fino al sogno,
fino a quel
punto vuoto
ove
la disarmonia
di un "non essere",
diviene controritmo
al quotidiano;
e indossando
gli abiti
mai consunti
sdruciti
logori
della fantasia,
veste di verità
ogni favola.
ogni gioco.
ogni "bugia".
tamburi di latta,
sul palcoscenico.
così questi gorni.
ognuno il proprio.
senza bacchette.
solo le mani
a segnare
un tempo.
quello
di un fluire.
di un incedere.
di un silenzio.
segnare il tempo
di una sincope.
di una nota
distesa
e subito
di nuovo
catturata ancora.
e meravigliarsi
all'inaspettato
rivelarsi
di nuovi suoni.
senza virtuosismo.
solo picchiettando
le dita
sul bordo
del tamburo.
o rovesciandolo.
e oltrepassare il confine
di dissonanze
temute.
ed in quelle
cominciare ad esplorare
le proprie mani.
seguire
la ragnatela
di linee
disegnata
sul palmo.
il profilo delle proprie dita.
così diverse
le mani di ognuno
da quelle
degli altri.
e scoprire
che il suono
non è imprigionato
tra fibre di latta.
scoprire
che il suono
nasce e vive
su quei polpastrelli
che timidamente
si comincia a sfiorare.
toccare.
accarezzare.
scoprire
che forse
non serve nemmeno
un tamburo
di latta
né suonare
una marcia insistente
smaniosa
per dire
la voglia
- la necessità -
d'essere
tamburino ognuno.
diversamente, ognuno.
oltre una maschera neutra,
parole
rubate a shakespeare
si muovono
sull'esile filo
teso sul vuoto
sul quale s'avanza
un solitario
equilibrista,
passeggiando
sui nasi
fissi al cielo
della gente che guarda,
che teme un'improvvisa caduta.
o forse intimamente
la spera.
...e non so
se sia stata solo la mia
la sensazione
di udire
un inusitato,
nuovo,
mai ascoltato
rullio
su un tamburo...
e poi passi di latta...
si allontanano...
ed ognuno di noi
si abandona
all'eco
della propria musica.
fino al sonno.
fino al sogno.
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