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diario d'officina

serata d'autunno incalzante.
per la prima volta di nuovo,
stasera il portone di legno che già ha accolto "cose di noi"
torna a schiudere i suoi battenti.
e si ritrovano percorsi... odori... suoni...
ancora trame di un discorso interrotto.
mai spezzato.
la luce fredda di neon
si scalda scivolando lungo i muri d'avorio
pregni ancora di emozioni vissute.
stasera di nuovo voci ricominciano ad inseguire sorrisi.
i sorrisi le voci.
occhi nuovi scrutano...
e ritualmente si ripetono gesti mai rituali.
riprendiamo il cammino.
semplicemente.
semplicemente.
senza scarpe di nuovo...
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
di nuovo l'ultimo ad andare via.
di nuovo la sala buia.
ma non è vuoto.
come luminescente foschia riprende forma,
né basta a se stessa, la voglia di forgiare emozioni.
e donarle.
e la sento addosso.
e si richiude alle mie spalle
dopo aver ceduto ai miei passi che la fendono.
per un attimo mi giro...
allungo una mano...
fino a quanto illusoria
la sensazione di "tenere" tra le dita
l'inconsistente essenza che ci farà essere qui ancora domani?
le voci dei ragazzi... di fuori...
sorridendo ritorno a chiudere il pesante portone di legno...



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lunedì, 20 febbraio 2006
densa.
anche questa sera
scivola via molto densa.
piena.
colma.
quando le cose
cominciano ad avere un loro spessore.
che non è pesantezza.
una sorta di tangibilità tattile
che in mille sfaccettature
riporta alla mente i bambini
che girano e rigirano tra le mani
un oggetto ancora sconosciuto...
e che vorrebbero "afferrarlo"...
morderlo...
possederlo...
e questa bramosia di possesso
mai disgiunta
da una continua sorpresa
che pare rinnovarsi
ad ogni gesto...
parola...
battuta...
scoprire piccole cose di sé
che non si sapevano.
che non si immaginavano, forse.
significati inusitati,
celati dietro uno sguardo,
un movimento piccolissimo...
lo spazio intorno a sé,
immoto,
che si tramuta
in una notte che avvolge...
o in un silenzio che percorro...
che trafiggo,
senza rumore anche io,
ad ogni passo...
e mi sembra di essere ancora
testimone di piccoli eventi
non diversi da quelli
che si realizzano
nelle botteghe
dei soffiatori di vetro.

è lunedì.
è lisistrata, stasera.
dopo gli esercizi spegniamo le luci.
giochiamo.

riparliamo delle improvvisazioni
di una settimana fa.
le ripercorriamo.
torniamo ad analizzare
quel nostro primo impatto
con l'eroina aristofanesca.
quel nostro "muoverci"
dentro lisistrata.
le improvvisazioni,
una dietro l'altra,
una diversa dall'altra...
cosa di quelle
è "arrivato" fino a noi...
cosa non ha varcato
il boccascena...
cosa ci ha trasportato,
improvvisamente,
in un altro luogo
ove non "è" lisistrata...
e perché.
alle cose che faccio notare
i ragazzi ne aggiungono altre.
ma nessuna cerca,
o vuole,
giustificare qualcosa
che non è mai stato un errore...
giacché proprio per compiere errori
noi siamo qui.
è ancora un cercare
sollevando altri lembi
oltre quelli che io sollevo.
è un prendere coscienza
di quanta valenza
abbia persino il più piccolo gesto
in teatro.
e in ogni gesto,
inconsapevolmente,
è un codice...
è un linguaggio
tramite il quale
il teatro svela
il suo "essere" teatro.
borghese...
realistico...
naturalistico...
impressionistico...
espressionistico...
astratto...
già dietro ogni gesto
è un codice
tramite il quale
una "verità" si rivela.
è stato naturale
accendere ancora
la curiosità di ognuno.
ne parliamo.
nuovi "perché".
fino a quando,
anche stavolta,
le parole devono cedere il posto
al palcoscenico.
improvvisiamo.
ma le frasi appena scambiate
sembrano aver trasfuso
altra linfa.
diversa.
c'è più controllo
e più abbandono.
più determinazione.
eppure stiamo giocando
su niente altro
che una immagine.
la prima che aristofane
ci dà della sua lisistrata...
la prima che noi vogliamo dare al pubblico
della "nostra" lisistrata...
anna sale timidamente sul palco.
lei che la volta scorsa era assente
si confronta per la prima volta
con questa donna
che non adesso parla,
ma che già dice
tutta la sua solitudine...
la sua fragilità e la sua forza...
la sua determinazione
e la sua necessità di amore...
la sua guerra per essere pace.
ed è subito il primo dubbio.
è già in scena, lisistrata?
e perché?
o raggiunge, invece,
il luogo dell'azione scenica?
e perché?
e cominciamo ad immaginare,
a pensare,
gli istanti di lisistrata
prima che le parole di aristofane
la consegnino a noi.
un prima che il pubblico non sa,
non vede,
ma che noi non possiamo non recare con noi.
poiché "ora" lisistrata
è ciò che fino ad ora ha vissuto.
anche un albero
sarà verde
se chi ha piantato il suo seme...
irrorato la terra...
potato i suoi rami...
ha avuto mani colme di amore.
e sarà invece secco... morto...
se aride sono state le mani
che dovevano avere cura di lui.
ma noi vediamo solo un albero,
né mai pensiamo,
o distinguiamo,
"mani".
adesso cogliamo lisistrata
in un atto di attesa.
ma sarebbe
vuota attesa
se non creassimo,
da noi, per noi,
un vissuto che fino a qui
l'ha condotta.
è ancora insicurezza in anna.
una cosa che colgo dal suo primo
incedere in scena.
ci soffermiamo sulle sue scelte.
cerchiamo insieme
da cosa sono state dettate...
ove molto più è adesso l'apparire
di un significare
piuttosto che un "vero" significare...
è poi
lo sguardo;
e i passi, poi,
di margherita...
ripete una, due volte...
ancora...
è come se qualcosa le sfuggisse
eppure arriva una tensione
che è attesa...
che è aspettativa...
che è determinazione...
che è lisistrata.
è più un fatto tecnico, adesso...
ed è normale che sia così
quando l'esperienza
è solo ancora una sottilissima traccia...
né vi è nessuna malizia d'attore.
ripetiamo di nuovo.
insieme.
poche indicazioni, le mie.
-"gli occhi come se fossero sulla punta del naso...
  è il naso che guarda... scruta... indaga... dirige..."
e ciò che prima
margherita disperdeva
nell'incertezza del suo guardare,
adesso si posa in scena
col posarsi dei suoi occhi.
ed in pochi gesti
si delinea
non solo "l'istante" di lisistrata
ma anche quella "verità"
non dichiarata
che ora appartiene solo
a margherita ed alla sua lisistrata.
una giacca abbandonata,
lasciata cadere,
come un antico peplo.
non è un "luogo comune"...
- si chiama cliché in teatro -
l'agire scenico di maria.
ma da subito
quella giacca lasciata in terra
si veste di una valenza simbolica
dalla quale è impossibile prescindere.
lisistrata "si spoglia" di qualcosa.
ma il suo spogliarsi è dovuto ad una delusione,
ad una  attesa ormai vana,
ad un'agorà deserta
e che non brulica delle donne dell'ellade...
reca il senso di un abbandono, quel gesto...
di una sconfitta, quasi...
ma è questa la "verità" di lisistrata?
torniamo ad impossessarci del gesto.
di ciò che veicola...
di ciò che cogliamo...
anche gli altri ragazzi intervengono.
e sono questi gli attimi
in cui io taccio.
ascolto.
gli attimi in cui le officine
realmente
appartengono a loro.
è bello ciò che ha fatto maria.
è semplice.
è vero.
ma tutti avvertiamo la necessità
di una maggiore nettezza.
svestirsi di quel peplo
con la stessa "volontà"
con la quale immaginiamo
lisistrata lo abbia indossato.
e si parla di significato degli oggetti...
e del controllo degli stessi...
e molto più banalmente
del non potersi liberare
in scena di qualcosa
che poi potrà creare disagio a qualcuno,
o che qualcuno dovrà poi badare a portare via.
improvvisare non è fare ciò che si vuole.
ogni cosa come un cerchio.
ogni cosa si apre.
ogni cosa si chiude.
in esso racchiusa una "verità".
improvvisiamo ancora.
improvvisiamo tutti.
non una lisistrata
identica all'altra...

percorriamo le scale
su per il vicolo...
-"non una lisistrata
identica all'altra..."
mi torna in mente la frase
con cui stasera abbiamo chiuso
la nostra lezione...
ed è naturale
 sorridere...
se fosse stato
in modo diverso,
qualunque modo
sarebbe stato
un modo tristissimo...



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