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diario d'officina

ritornano pagine usuali...
consumate fino a notte.
istante per istante.
oltre il nostro vecchio portone di legno...
ed ancora ciottoli da raccattare... o da deporre...
ancora una via di cui non si intuisce la meta...
ed infinite immaginifiche vivono.
ancora il sottilissimo filo di un sogno
a legare senza nodi.
non più grande
del refe ordito dalle graziose mani della  "regina mab"...
e non diversamente dai suoi,
filo che è vano spezzare...
perché non vi sono lame
capaci di recidere
i tessuti dell'anima - i più intimi -
ove si dipingono
le voci... i mercati... i vicoli...
i volti...
...ed i sogni...
quelli di ognuno...
quelli che unici rubano alla realtà le loro tinte
e vivono
tra le pareti delle officineteatrali.
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lascio i miei vestiti scivolare in terra.
li ripiego con cura
li ripongo nella sacca...
tra appunti... fogli... libri...
e parole.
le mie... le loro...
il pensiero di tante cose da dire ancora...
da ascoltare...
instancabilmente...
di nuovo indosso i miei abiti di ogni giorno.
lo zaino sulla spalla... le chiavi in mano...
mi avvio anche stasera...
spengo le lampade...
buio...
ma la luce rimane con me...
non quella dei freddi neon al soffitto.
non quella...
una luce lieve... donata... rubata...
sagoma ombre di verità cercate.
le mie...
le loro...
le nostre...
immagino di portarla via.
anche solo un riverbero. minimo.
nella sacca...
tra gli appunti... i fogli...
una maglia ripiegata con cura...


index

 



lunedì, 2 aprile 2007
ci sono luoghi
che esistono
perché
è necessario
che siano.
altri luoghi
che esistono
perché
è una scelta
il loro
"volere" che siano.
così queste pagine.
forse non necessarie.
certamente volute.
pagine
vissute
non meno intensamente
dei giorni
che narrano.
pagine rubate
ad "altre" pagine,
né scritte,
né narrate,
- o forse ancora da scrivere,
  o forse da narrare mai -
il cui ritmo
è ancora scandito
dal cigolio
delle assi
di un palcoscenico;
da tazze
di caffè
sorseggiate
sedendo
ad un tavolo,
facendo cerchio
intorno a un'idea;
da altre
parole
che ambiscono
la medesima vita
cui
incessantemente
tendono
quelle che qui,
tra queste pareti,
spezzano
silenzi.
"altre" pagine
che mi hanno
carpito
per qualche giorno
a questo
"luogo non necessario"...
luogo
che non smetto
di amare,
né smetto
di voler condividere
con i miei pazienti
sette lettori.
ed "altre" pagine ancora,
- già lo so -
forse di nuovo
potranno
portarmi via,
brevemente via,
da questo
strano
giornale di bordo.
un piccolo libro
che mai
torno
a sfogliare.
null'altro che
"fogli"
questo diario.
fogli
che raccolgono,
e custodiscono,
il nostro tempo
tra le mura
scrostate
delle officine.
e di quel tempo,
rimangono.
unica eco.
fogli che non sono
mai stati
semplicemente una cronaca.
mai per noi.
né mai,
fogli,
che semplicemente
una cronaca,
ambiscono divenire.
nati
senza un perché,
sono fogli
affidati quasi
alla corrente
di un fiume
che non rallenta
la sua pacata corsa
verso un delta
che non conosco.
li vedo allontanarsi
dalla battigia
e non finisco
di credere,
o sperare,
che qualcuno,
da qualche parte,
li colga.
e scorrendoli
faccia sua,
tra le tante,
una sola parola.
ed allora
non saranno
invano
questi fogli semplici,
scritti di getto.
fogli che vogliono solo
provare a tracciare
quel profilo
labile
che in ogni pagina,
- ad ogni rigo
  o sospensione -
in ogni
parola,
cerca di delinearsi,
continua ad aspirare
ad una "forma"
che possa essere percepita.
accolta.
ospitata:
il profilo
-  vero crudo nudo -
del riflesso
di una emozione.
delle emozioni.
quelle che
si "consumano"
sul piccolo palcoscenico
delle officine
e che
- non altro -
danno un significato
al nostro
non smettere
di anelare,
sognare,
un teatro da "essere".
non altro
che un riflesso.
ciò che offriamo...
ciò che accogliamo...
solo un riflesso.
ché su questa pagina,
come in palcoscenico,
nulla varrebbe a dire
se non il riflesso
di qualcosa
che intimamente
si vive
nell'istante
in cui,
in se stessi,
comincia lentamente
a pulsare
una verità...
che intimamente
ciascuno
usurpa,
per se stesso,
nell'istante in cui
"verità"
strappano
corde che legano
teli di vela...
e quelle
si gonfiano...
e solcano mari
che infine
si increspano
all'alito
di un'emozione.
ed è un vento
leggero
che mai
sorge
da sé.
che mai
ha la stessa direzione
né la stessa forza.
vento
che spira
lievissimo
fino a scostare,
fastidiosamente scostare,
ciocche di capelli
al primo schiudersi
di minimi
spiragli
di una
delle finestrelle
oltre le quali
semplicemente
guardiamo...
ma nulla
di casuale
è in una piccola anta
che lentamente
si dischiude.
nulla di casuale
in  quella
brezza
leggera
che l'attraversa.
nulla di casuale
in una ciocca
che inaspettatamente
scivola
sul viso.
e non la si scosta.
rimane lì,
giocando
vezzosamente
tra il naso
e le guance.
sugli occhi.
a fare da esile sipario
tra il "vento"
e il "vuoto"
che adesso
è intorno.
ancora "vuoto".
silenzioso
"vuoto".
immutabile
"vuoto"...
e tutto ciò
che giostra
senza mai fermarsi
attorno a me,
attorno a noi,
mi accorgo
che ora
è lì,
in quel "vuoto"
che non basta.
"vuoto"
che leggo negli occhi
che sfuggono
una ciocca
di capelli,
in quegli istanti
di "vuoto"
ove il teatro
trova la sua genesi
-al di là del "vuoto" -
o dove rimane
avvinghiato,
incapace
di ogni respiro,
rapito
dalle invisibili spire
che il "vuoto" stesso
ordisce.
"sfuggire il vuoto"...
frase mille volte ascoltata...
letta...
vissuta...
vissuta fino
a dimenticare
- volere dimenticare -
le voci sempre uguali
che ripetono
litanie rituali
attorno a me.
questi i miei anni
intorno al teatro.
in teatro.
ed ancora oggi.
qui.
in laboratorio.
una ininterrotta
fuga
dal "vuoto"
per colmare
la necessità
- frenetica necessità -
di essere...
di cercare un "pieno"
- senza fronzoli né orpelli -
ove sbarrare gli occhi
- per vedere per cercare -
lasciarsi avvolgere
- e librarsi, insieme -
respirarlo,
il vento.
seggo tra i ragazzi.
e ascolto.
e di loro,
da subito,
mi raggiungono
- e sono i primi,
  a raggiungermi -
rumori.
distinguo
il suono
di piccole ante
che pian piano
si aprono;
ma è il silenzio,
ancora,
al di là
di quelle.
ed altri rumori,
sottilissimi,
mi raggiungono...
il sibilare
di un vento
che si avvolge
su se stesso
in vortici
senza ancora un inizio,
né una fine.
vento
che rimane
recluso,
impazzando
oltre
una porta serrata.
e non esistono
chiavi
buone ad aprire
ogni serratura,
né otri di eolo
a contenere,
e a liberare,
poi,
venti
che trovano
in un'unica
"rosa"
la loro mappa.
rumori che riempiono
silenzi
mentre leggiamo
"spleen",
di baudelaire.
e nessuno
è insensibile
a quello  "scivolare"
verso la malinconia
che in quei versi
il poeta
- no, non descrive -
vive.
una malinconia
cieca,
buia...
che improvvisa
sorprende...
che "preclude"...
che invade...
sento di nuovo
quei versi,
mille volte
già noti,
penetrarmi ancora.
come se mai
si fossero
ancora rivelati.
come se adesso,
per la prima volta,
svelassero
cielo luce terra...
e la fragile
caducità
di un uomo.
di ogni uomo.
e non è il ritrovarsi,
riconoscersi,
in quei versi.
è il ritrovare,
il riconoscere,
realtà
che almeno
una volta
hanno lambito
la vita:
la nostra
o quella di altri.
e la fuga
per non vedere,
per non sentire,
per preservare...
fuga
che abbandona,
dietro di sé,
la scia
dall'odore pungente
che impregna
ogni egoismo.
e forse
si vorrebbe accanto
qualcuno
capace
di schiuderli,
gli uscii...
di sprigionarli,
i venti...
di scompigliarli,
i capelli...
istanti.
vissuti qui,
adesso,
in laboratorio,
in cui ognuno
è solo
innanzi
a quei versi,
innanzi
ad una realtà.
realtà
che ha adesso
il ritmo,
l'incedere,
la densità,
del poeta
francese.
realtà.
non "verità",
non ciò
che il teatro,
ancora una volta,
ogni volta,
ci chiede.
esige.
ma è una realtà,
realtà
che spesso
non ci appartiene,
quella attraverso
la quale
dobbiamo condurre
i nostri passi...
che dobbiamo
percorrere
per raggiungere
una "verità".
per schiudere porte...
per liberare venti...
come conoscere
il buio,
per sapere la luce...
toccare la terra,
per vivere
un volo...
conoscere l'indifferenza,
per desiderare
d'amare...
e quei versi,
lentamente,
cominciano
a farsi strada
dentro di noi.
lentamente
a rovistare...
lentamente
a porre disordine...
lentamente
a tentare
chiavistelli  diversi...
lentamente
cercare vie
che conducano
lontano
dalla parola
scritta.
oltre.
intorno a me
le voci dei ragazzi
come a scrutare
parole.
così
il loro leggere
quella poesia.
così il loro
provare.
più volte...
cercando
una logica...
lottando
con le cesure
che paiono
cancellare
ogni significato...
cercando
altre parole,
quelle non scritte,
che ugualmente
affiorano...
ed è come
se dilagasse,
"spleen",
intorno a noi.
chiudo gli occhi.
ascolto i ragazzi.
rivivono
istanti miei,
in me,
in cui facile
è stato
abbandonarsi,
scivolare,
nessuna resistenza
opporre
all'improvviso
"spleen"
che mi ha fatto sua preda.
ed il teatro
mai ha smesso
d'essere
rifugio
ad un buio
"più delle notti"...
quando il teatro
diviene
qualcosa
che esula
palcoscenico luci costumi...
quando assume
i contorni
di un luogo
ove non solo
si nutrono
i sogni,
ma soprattutto
si disseta
l'arsura
provocata
da false promesse sorrisi parole...
e l'uomo
cresce
all'ombra
di una favola ancora.
cruda, a volte.
non meno di "spleen"...
favola che vive
su un palcoscenico,
dentro un laboratorio,
tra le righe
di una pagina,
in fondo a  un sottoscala
o ad una cantina.
dentro di me,
sempre...
ed io non smetto
di credere
che ci siano
luoghi
che si sceglie
che esistano.
perché
è "necessario"
che siano.
che da qualche parte,
siano...

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